La dedica della settimana
Eccoli giovani e belli, con gli occhi della speranza e la voglia di costruire un nuovo futuro attraverso la partecipazione. Perché non riesci a stare fermo quando sei incapace di accettare tanta violenza. Non ce la fai proprio. Leggo la storia di questi giovani ragazzi morti, i ragazzi di Suruç e un vuoto pervade tutto il mio spazio circostante. Quante lacrime urlate al vento. A cosa serve tutto questo. A cosa serve scrivere, tutte queste parole, tutti questi post, tutte queste dediche, la memoria resta solo lettera morta, parola bruciata. Conta solo un'esplosione e passa tutto. Guardo e riguardo quella foto, violenza devastante e insensata come quella di Utoya e l'ingiustizia del silenzio dopo il massacro.
Quei ragazzi turchi militavano nella Federazione delle associazioni dei giovani socialisti, arrivavano da tutto il Paese, e avevano un sogno. Poi quella bomba esplosa nel giardino del centro culturale Amara ha distrutto tutto. Anche i norvegesi di Utoya avevano un sogno, quello di costruire un futuro sostenibile, paradosso vuole che anche loro erano in un campeggio di giovani socialisti norvegesi, anche lì si parlava di futuro e si cercava di porre le basi per costruire. Anhce lì, un ragazzo come loro, quattro anni fa lì ha ammazzati. Un attacco di follia omicida, un folle visionario fu capace di commettere una strage. Resti zitto.
Dopo tanto dolore verrebbe solo da stare in silenzio, prendere tutto e partire distante anni luce verso Kepler 452b.
Ma poi pensi.
Il silenzio degli sconfitti
Nessuno ci ridurrà al silenzio, né con le bombe, né con le pistole.
Jens Stoltemberg, Presidente del Consiglio norvegese
Perché stare zitti è la loro vittoria. Restare in silenzio è assenso a tutto questo. E connivenza. Forse un motivo per continuare a scrivere è proprio questo. Magari nessuno ti legge, ma se ce ne fosse anche solo uno... Ecco perché sono ancora qui. La Dedica della settimana non va in vacanza, la n.16 di questa settimana è contro tutta questa violenza, per questo la dedico a loro. A questi bei sorrisi, a quei trentadue ragazzi che avevano tanto coraggio, molti erano curdi, in Urchi i curdi sono considerati poco, meno di niente. Ma loro avevano coraggio, molto più di me che resto chiuso in queste quattro mura, al sicuro, forte di questa tastiera. A quei coraggiosi uccisi il 20 luglio a Suruç dedico queste parole. Quei ragazzi uccisi non si sa bene ancora da chi e perché, vittime di un sacrificio, di un attacco kamikaze, dicono di un ragazzo turco, avvicinatosi alla jihad qualche mese prima. Una bomba ne ha devastato i corpi e ne ha spezzato le vite, oltre a tutta quella speranza e quell'ottimismo per il futuro. Quella voglia di cambiare il mondo è esplosa con loro.
Non solo numeri
Okan Pirinç, Uğur Özkan, Kasım Deprem,
Hatice Ezgi Saadet, Cemil Yıldız, Çağdaş Aydın, Nazlı Akyürek, Ferdane
Ece Dinç, Mücahit Erol, Murat Yurtgül, Emrullah Akhamur, İsmet Şeker,
Nartan Kılıç, Ferdane Kılıç, Serhat Devrim, Met Ali Barutçu, Erdal
Bozkurt, Süleyman Aksu, Koray Çapoğlu, Cebrail Günebakan, Veysel
Özdemir, Nazegül Boyraz, Alper Sapan, Alican Vural, Osman Çiçek, Dilek
Bozkurt, Büşra Mete, Yunus Emre Şen, Ayda Ezgi Şalcı, Polen Ünlü, Duygu
Tuna, Nurcan Kaçmaz, i nomi di alcune delle vittime. Quelle che per ora sono state riconosciute.
Il sogno
Quei giovani avevano un sogno, superare il confine e arrivare in Siria, a Kobane e dare una mano per ricostruire, magari rimettere in sesto la vecchia biblioteca distrutta, ridare un po' di verde a una terra morta tra violenza e distruzione, costruire un nuovo parco giochi per rifar rinascere un sorriso tra tanto dolore di un'infanzia vissuta tra violenza e distruzione.
Chiamateli utopici, dite anche che se la sono cercata, mi raccomando distruggetene l'esempio e la loro ingenua speranza, come è stato fatto per le due Simone o per Vanessa e Greta, che furono rapite in Siria. Siamo bravi a distruggere tutto.
Questa volta l'Italia non c'entra. Questa volta non c'è stato nessun rapimento e nessun riscatto. Neanche il tempo, solo un'esplosione perché forse era meglio dare l'esempio. Ammazzarne trenta per fermarne cento.
Dalla lotta per la pace a simbolo di guerra
Lottavano per la pace, per ricostruire un Paese e ora si trovano simbolo di una guerra. Sì, perché Erdogan ha "ordinato" alle famiglie di seppellire in fretta quei corpi, perché è ora di rispondere velocemente alla violenza. Perché quel dolore crea disordine e può far pensare, perché tutto deve essere usato per veicolare quella strage,riacquistare consenso laddove si favoriva l'estremismo quando faceva comodo, ora diventa uno strumento e quell'atto di violenza è un motivo simbolico di attacco verso l'esterno. Peché è giusto attaccare l'IS. Perché ora la Turchia è in guerra e chissà cosa succederà. Tanti perché, tutti simbolo della grande contraddizione che è diventata la lotta di quei ragazzi.
Forse è vero, il tempo e i vari sacrifici di eroi della società civile l'hanno insegnato: credere nella possibilità di cambiare il mondo uccide te e le tue idee. Finisci strumentalizzato per qualcosa che non volevi. Muori più volte, per ogni bomba sganciata, per ogni biblioteca distrutta, per ogni casa rasa al suolo, muori nel terrore di una madre e un padre che terrorizzati proteggono tra le loro braccia il proprio bambino.
Per ogni lacrima versata, muori con loro. Ogni volta.
Nessun commento:
Posta un commento