mercoledì 24 agosto 2016

E se il problema fossero le elezioni?

L'ennesimo bivio dell'Europa, mentre Renzi, Merkel e Hollande si incontrano sull'isola di Ventotene a suon di belle parole sul futuro dell'Ue, omaggiando Altiero Spinelli e gli uomini di Ventotene, ma dimenticandone in toto il loro insegnamento. Il premio nobel per l'economia Stiglitz afferma che il prossimo referendum italiano, quello di ottobre sulla riforma costituzionale voluta dal Governo Renzi, potrà essere la prossima scossa tellurica sulla stabilità dell'Unione.



Ma cosa resta ancora dell'Europa vista la fiducia che si nutre ancora su questo progetto.


Che significa ancora Europa?

Da quando è nato il progetto europeo e soprattutto da quando si è affermato l'Euro, l'integrazione europea è stata sempre di più relegata a questione di bilanci, a guerra di posizioni tra i Paesi e a salvataggi bancari. L'economia prima di tutto, prima di qualsiasi concezione e principio inerente alla cittadinanza e al costruire i cittadini. L'egoismo degli stati nazionali ritorna sempre.
Se un tempo il progetto era quello di costruire gli italiani, oggi il progetto dovrebbe essere quello di costruire gli europei, ma ormai sembra soltanto un insieme di belle parole di poco conto.

Cittadini

Dopo il referendum sulla Brexit, i numerosi attentati e le difficoltà sempre presenti per la questione dei rifugiati e dell'immigrazione hanno portato ai minimi termini i livelli del sentire europeo e in tutte le forme nazionaliste dell'antipolitica. Non si pensa a costruire un cittadino europeo, ma solo un contribuente, un consumatore, un cliente, mentre tutti gli ideali annegano in un mare di misure che non mirano a nulla ecccetto i bilanci e a tenere a freno il debito che tanto sta a cuore alla Germania.


sabato 13 agosto 2016

Serie A, storia di un progetto mancato nel declino del Milan e di Berlusconi

Se Anarcolessia è una finestra sul mondo che mi circonda, da questa finestra non può non mostrarsi lo sport. Ti accorgi a un certo punto che non c'è nemmeno un post che tratti di sport. Quindi di tanto in tanto inizierò a scriverne, chi legge si abitui.



Sin da piccolo ho nella mente con grande divertimento il calcio d'estate, praticamente uno sport a parte, in cui un po' tutti ci nutrivamo di illusioni grazie ad amichevoli estive dell'importanza del piffero, alle chiacchiere di mercato e al sogno che bene o male tutti erano campioni in estate. Questo è stato il bene o il male di essere cresciuti negli anni novanta, il periodo d'oro della Serie A e del calcio italiano e forse l'inizio della fine. Ricordo gli anni di vacche grasse quando i club italiani erano dominatori di coppe e il campionato se lo giocavano le cosiddette "sette sorelle". Sogni, illusioni, castelli di carta, un po' come quelle ricchezze su cui si appoggiavano quelle squadre, fatte di plusvalenze virtuali, finanze creative e bilanci pazzi. Quegli anni sono finiti e finiti sono i protagonisti di quel periodo.
Gli Agnelli sono rimasti nel nome ma ormai non ci son più, la Juve è più una Holding, l'unica che da qualche anno ha iniziato un tipo di gestione lungimirante e competitivo. Tanzi e Cragnotti son finiti male, facendo del male; Cecchi Gori ormai ex imprenditore, è un po' ex in tutto; anche la Roma non è più dei Sensi e le milanesi son finite in Asia in mano ai cinesi.



Serie A2

Il calcio malato con cui son cresciuto, quello che spendeva e si indebitava fino a gioco forza far impazzire i bilanci, non esiste più. O meglio esiste, ma la Serie A lo guarda da spettatore, non ha né forza economica, né attrattiva per emulare i giganti stranieri. Gli affari di questa estate non fanno testo. Il giocattolo è passato di mano. L'ultimo dei proprietari del mio calcio anni 90 a capitolare è stato Silvio Berlusconi, l'uomo che più di tutti ha accelerato il cambiamento del calcio italiano, forzando i grandi investimenti, acquistando campioni con ingaggi miliardari, spingendo per la deriva verso le tv. Che lo sia ami, o lo si odi, Berlusconi ha profondamente cambiato il calcio italiano, acquistando grandi campioni e costruendo una squadra a tratti imbattibile. Dall'altro lato ha dato il via a una lunga parabola che ha visto dei picchi di crescita, ma che sta ora conoscendo un declino inesorabile. Il calcio voluto da Silvio Berlusconi è fallito. In fondo tutto questo non è stata che il simbolo di un intero Paese, che negli anni 90 cercava di guardare da un'altra parte mentre tutto accadeva. Una grande metafora d'Italia e dei suoi uomini "migliori". Un po' come quegli imprenditori che investono, spendendo miliardi, che sfruttano il momento, cavalcano l'onda ma poi sono incapaci di affrontare le nuove sfide. 

La Parabola di Silvio



La parabola che ha preso il via nei "meravigliosi" anni '80, gli anni del campionato più bello del mondo e che ha conosciuto l'apice nei ruggenti anni '90, è esplosa in tutta la sua inconsistenza negli anni 2000. Un'epoca di spese folli e di grandi successi sportivi. Berlusconi ha utilizzato il Milan per costruire la sua immagine, lo sport che ci riesce a far smuovere dal torpore quotidiano non poteva che essere la chiave per entrare nei cuori e nelle teste di milioni d'Italiani. Ora è tutto finito, anni di successi sportivi non possono però far passare in secondo piano quello che, se guardato da un punto di vista imprenditoriale (quello che Berlusconi si è sempre vantato di essere) un fallimento nel lungo periodo. Perché sarà brutale dirlo, il giocattolo Milan gli è scoppiato tra le mani, se nel momento delle grandi spese, quando far valere la forza economica era l'unica cosa che spostava gli equilibri, era stato forte, quando poi il gioco è diventato più grande e difficile, non è riuscito a reggere. In decenni di gestione non è riuscito a costruire nulla che potesse dare una solidità extra sportiva alla squadra e il confronto con le grandi del calcio europeo è impietoso. Nessuno stadio di proprietà, diritti all'estero inesistenti e una macchina organizzativa e di merchandising imparagonabili a grandi marchi come Manchester United e Real Madrid, capaci di fatturare indipendentemente dai risultati sportivi.
La limitatezza della società si è vista nella scelta dei dirigenti, gli stessi in trent'anni di gestione, poi sostituiti dai figli. Una società arcaica esplosa in una grande bolla di sapone.

Fine della storia


Un po' come Mediaset/Fininvest e l'impero delle tv, ormai fuori da internet e ai margini delle payperview, privo di alcun profilo internazionale. Frutto dello sfruttamento di una posizione dominante in anni di predominanza politica. Milan e Fininvest dallo stesso destino, nel declino inesorabile di Silvio Berlusconi, fallimenti politici e sportivi segno di quanto la festa sia realmente finita.

mercoledì 10 agosto 2016

Quello di cui è meglio non scrivere

Ci sono mondi che restano invisibili, su cui non si scrive perché disturbano. Realtà che passano tra un titolo e l'altro, un filmato di qualche minuto e un servizio di poco conto, perché infastidiscono e non fanno bene al clima vacanziero.

Ci sono mondi distanti, così distanti che non hanno nulla a che fare con i chilometri e le distanze reali. Sono così distanti da essere così invisibili pure se vicinissimi a noi.

Il clima torrido dell'estate non consiglia di affrontarli, per non perdere attenzione, per non perdere allegria, perché non serve a nulla ora che la strumentalizzazione è in vacanza.

L'Olimpiade delle favelas

 

C'è un Brasile oltre il Brasile olimpico che affonda ogni giorno tra povertà, corruzione e favelas. Un Paese che vive tante differenze e divisioni, che con la crescita economica sono ormai spaccature. Un Paese che non si vede e che non è mostrato durante questi giorni. Le favelas di Rio de Janeiro, come le banlieue parigine, sono un crogiuolo di povertà, focolai pericolosi dove mancava solo l'infiltrazione dell'Isis per accendere ancora di più quelle tradizionali terre di nessuno, da sempre territorio di narcos. Si parla di BrasIslam con più di sessanta poliziotti uccisi in favela prima delle Olimpiadi e con ogni giorno morti ammazzati e desaparecidos. Un Paese in guerra urbana con la polizia che uccide in media sei persone.
Una statistica citata da Paolo Manzo su Panorama è impressionante:
Negli ultimi tre anni con 172mila omicidi il Brasile ha superato tutti i morti ammazzati di 12 paesi come Iraq, Sudan, Afghanistan, Colombia, Congo, Sri Lanka, India, Somalia, Nepal, Kashmir, Pakistan ed Israele, dove i conflitti sono "di casa", senza contare che tra le cinquanta città più violente al mondo 21 sono verde-oro.
A governare una delle città più grandi al mondo è come sempre la droga, con i narcos che la fanno da padrone nelle favelas, abitate da oltre quattro milioni persone costretti a vivere  senza fognature, in ostaggio di uno stato assente o complice delle gang. Un'enorme bacino di manovalanza in cui i  giovani crescono tra malattie come la sifilide, tubercolosi, Aids, tifo e lebbra e dove, chiunque per un pezzo di crack può essere disposto anche a uccidere.

Quella delle favelas è la Rio che i turisti non vedranno, una città in cui i "meninos de rua" (i bambini di strada delle baraccopoli) sono spariti da Copacabana e chissà dove sono finiti.


Se la situazione in Brasile oscilla tra il drammatico e il paradossale, in Siria si fa peggio.

Siria strage infinita

 


Aleppo è sotto assedio da tempo e i due milioni di abitanti che abitano la città nel Nord della Siria sono prigionieri di una situazione che sta precipitando e sta diventando una catastrofe umanitaria. Le  Nazioni Unite hanno chiesto alle parti una tregua umanitaria e chiedono l'accesso immediato alla città per soccorrere i civili. Sono due settimane senza sosta in cui i combattimenti tra ribelli dell'opposizione e le forze del regime dividono la città. Due milioni di persone in città vivono nella paura di rimanere sotto assedio, paura dovuta alle strategie di assedio dei gruppi in lotta, che nel momento in cui occupano arterie di comunicazione impediscono l'accesso di rifornimenti ai civili che restano intrappolati
Da una nota dell'Onu si legge una forte accusa a tutte le parti in causa.

Quando vengono utilizzate per privare intenzionalmente persone di cibo e altri beni essenziali per la loro sopravvivenza, le tattiche di assedio costituiscono un crimine di guerra
Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, circa tremila soldati e miliziani sono stati schierati da Assad e dall’organizzazione sciita libanese Hezbollah per dare il via a una reazione e riconquistare le posizioni perse negli ultimi giorni in città.
Dalla fine di luglio ad Aleppo sono morti almeno 130 civili, la rete idrica e diversi ospedali sono stati gravemente danneggiati dai bombardamenti ed è stata anche interrotta la strada usata dalle Nazioni Unite per portare aiuti umanitari ai residenti che si trovano nella parte occidentale della città,  provocando l’isolamento dei civili.
In Siria si sopravvive, si combatte contro Assad, si combatte contro i ribelli, si combatte contro Daesh, si combatte contro tutto e contro niente. Si cerca di sopravvivere.

Yemen in silenzio 

 

L'interesse occidentale nella regione araba si misura con il rumore dei media sulla guerra in Yemen, Paese un tempo culla della cultura pre islamica, con la raffinatacapitale Sana’a, da Mille e una notte. Oggi è teatro di uno scontro da cui non si vede luce, dopo che con le primavere arabe, migliaia di giovani erano scesi in strada per chiedere democrazia e diritti. A quelle proteste laiche e progressiste  fece seguito il tentativo di colpo di Stato dei ribelli Houthi, sciiti sostenuti dall’Iran, e la conseguente dura risposta militare dell’instabile governo sunnita di Abd Rabbo Mansour Hadi, sostenuto attivamente dall'Arabia Saudita che ha voluto mantenere il controlo del Paese iniziando una dura guerra. Lo Yemen occupa una posizione geograficamente strategica in quanto dallo stretto di Bab el Mandeb, collegamento strategico tra mar Mediterraneo e Oceano Indiano, transitano la maggior parte delle petroliere dal Golfo Persico. Importante per l'Arabia Saudita e per gli Stati Uniti che riforniscono Riyad con miliardi di dollari in armamenti, così come l'Italia come riporta la Rete Italiana per il Disarmo.
In Yemen si combatte una guerra invisibile sul sangue dei dei civili yemeniti ,nella lotta tra  gruppi sunniti e sciiti e che va inquadrato nel quadro di annosi conflitti tribali per il controllo del territorio, che negli ultimi anni sono riesplosi anche a causa del ruolo di potenze come Arabia Saudita, Iran, Qatar e Emirati, dopo trentatre anni di potere del generale Sales che era riuscito a tenere l'ordine. La situazione è drammatica, con la città di Aden terreno minato, sottoposta ad attacchi dell’Isis e di gruppi legati ad Al Qaeda. Le cifre sono spaventose con settemila morti e undicimila feriti, una devastante guerra che sta producendo miseria, carestie, fame e immensi danni al patrimonio culturale yemenita con incalcolabili danni al patrimonio archeologico.

Tante realtà di cui non si parla o che sono fatte di omissioni tra uno spazio e l'altro, perché è meglio non urtare la suscettibilità che informare su qualcosa che è bene tenere sotto silenzio.