Siamo tutti oggetto di manipolazione e disinformazione organizzata. Le
notizie sono semplici fatti, sta a chi informa diffonderle o
manipolarle. La narcolessia mediatica è proprio quella che ci
propina chi oscura e manipola il mondo dell'informazione.
Cercare di uscire da questo sistema perverso è dovere
di qualsiasi essere pensante.
La dedica della settimana
Di profughi e di "ultimi" te ne ho già parlato in questo post ne "La dedica della settimana n.3" del 25 aprile, quando, oltre che a parlarti della Liberazione, ti avevo anche scritto dei viaggi della speranza dei migranti verso l'Italia, che troppo spesso finiscono in fondo al mare. In quel post ricordavo a tutti noi, che è solo un caso fortunoso che a farci nascere nella parte di mondo "giusta".
Con la dedica di questa settimana voglio parlarti di un'altra storia che sta passando sotto quiete indifferenza, solo perché non riguarda le nostre acque, solo perché non riguarda i nostri confini, solo perché quella realtà è più lontana della punta del nostro naso.
Parlo dei migranti rohingya di cui forse ti interesserà poco, perché sono lontani da noi, ma su cui bisognerebbe davvero riflettere. I rohingya sono in fuga dalla Birmania, un Paese discriminante che non li riconosce come cittadini. Continuano a scappare e ora sono abbandonati nel mare delle Andamane respinti dagli altri Stati.
Indesiderati
La storia dei Rohingya è paradossale. Da secoli vivono nello stato del Rakhine, in Birmania, dove non sono ben visti dalle autorità e dalla maggioranza buddhista che li discrimina, li perseguita e non li riconosce come cittadini birmani. A causa delle terribili condizioni, molti di essi pagano oltre duemila dollari per raggiungere i campi gestiti da trafficanti nel sud della Thailandia, in un viaggio lungo e pericoloso, che li porta in luoghi di violenza senza fine, dove è facile morire per malattia, abusi o bloccati come ostaggio dei trafficanti, o come schiavi costretti a lavorare sui pescherecci.
Con l'aumento dei controlli del governo militare thailandese, questo commercio di uomini ha finito per rallentare e gli sbarchi sono stati resi più difficili. I barconi dei migranti vagano quindi da mesi in mezzo al mare, alcuni sono miracolosamente sopravvissuti a un attracco al largo della costa di Aceh, in Indonesia, dove un peschereccio li ha soccorsi. Altri, circa ottomila persone, sono ancora nelle mani dei trafficanti nel mare delle Andamane e continuano a essere ostaggio delle one, a bordo di piccoli pescherecci, perché respinti da Paesi come Malesia, Indonesia e Bangladesh.
La Birmania rifiuta di voler riprenderseli, perché non li vuole e non li considera cittadini birmani, affermando di voler "offrire assistenza umanitaria a chiunque soffra in mare, ma che accoglierà solo chi dimostrerà di essere cittadino birmano".
Tra l'altro non so quanto convenga ai rohingya tornare lì.
Tra l'altro non so quanto convenga ai rohingya tornare lì.
Assistenza a tempo
Su pressione soprattutto degli Usa, Malesia e Indonesia hanno deciso di offrire assistenza temporanea ai migranti ancora in mare, a patto però che la comunità internazionale si occupi del loro rimpatrio o del loro trasferimento entro un anno. Mentre la Thailandia si è detta disponibile a fornire viveri ai barconi senza però offrire campi d'accoglienza.
Il destino dei Rohingya sembra sempre più incerto e precario, in un contesto di profughi che supera quello dei migranti africani verso l'Europa attraverso il Mediterraneo, la loro storia ricorda molto quella del viaggio degli ebrei a bordo del transatlantico St. Louis nel 1939.
Il viaggio dei dannati
Il 13 maggio del 1939 la nave St. Louis salpò da Amburgo in direzione Cuba con a bordo 937 profughi ebrei tedeschi in fuga dalle persecuzioni naziste. Speravano in una via di fuga "all'altro mondo", dopo che Hitler aveva sfidato gli altri Paesi a prendersi quei "criminali" che lui gli avrebbe consegnato addirittura in una nave di lusso. Quando settimane dopo la nave arrivò a L'Avana, il governo cubano non permise ai passeggeri della nave di scendere e non concesse nessun permesso di sbarco ai profughi, né come turisti, né come rifugiati politici. Gli ebrei cercarono allora salvezza nei porti degli Stati Uniti, in Florida, ma anche qui alla St. Louis non venne concesso il permesso di sbarco e ugualmente in Canada accadde la stessa cosa. La situazione di incertezza e vagabondaggio della St. Louis durò un mese e diventò un caso internazionale. Con l'intervento delle Associazioni ebraiche e il rifiuto del capitano del transatlantico, Gustav Schröder, di restituire la nave alla Germania, fu trovato un accordo affinché ai rifugiati fosse permesso lo sbarco e l'approdo in alcuni Paesi europei, quando il 17 giugno 1939 la nave raggiunse Anversa. Grazie alla diplomazia, 288 persone furono accolte dal Regno Unito, mentre gli altri 619 finirono in Francia (224), Belgio (214) e Paesi Bassi (181). Di queste, secondo il museo United States holocaust memorial, sopravvissero solo 365 persone, in quanto gli altri finirono per perdere la vita nei campi di concentramento di Auschwitz e Sobibor o in altri campi d'internamento, quando ci fu l'invasione nazista.
I viaggi della disperazione
La storia si ripete, è ciclica come anche gli errori degli esseri umani. In Europa siamo abituati ai respingimenti e alle divisioni. Dopo anni di politiche inclusive volte a superare quelle "umane troppo umane" barriere politiche e culturali, sta ritornando di moda la cultura del considerare estraneo ciò che è diverso o lontano da noi. In periodi di crisi è così, se l'UE non riuscirà finalmente ad assumere quel ruolo politico che dovrebbe ormai ricoprire, visti gli anni di integrazione alle spalle, sarà sempre peggio. Perché, se respingendo la St Louis, gli Stati Uniti e gli altri Paesi si comportarono proprio come voleva Hitler, dimostrando quell'antisemitismo di fondo della loro società; se i Paesi del sudest asiatico fanno lo stesso, respingendo i rohingya, come vuole il regime birmano, con i migranti dall'Africa e dalla Siria noi non ci dimostriamo diversi.
Tutto è ciclico e tutto ritorna.
Gli ebrei furono respinti perché nei Paesi dove cercarono di attraccare, era tacitamente approvato un sentimento antisemita latente. Ugualmente in Occidente, con la demonizzazione dell'islam, è accettato un certo fanatismo islamofobo, che considera i musulmani invasori e accetta, in un silenzio assordante, l'indifferenza e l'odio nei confronti dei profughi musulmani.
Se il modello dei Paesi europei sarà quello australiano, fatto di espulsioni indiscriminate tout court, allora prepariamoci al peggio.
La storia ci insegna che se ci focalizziamo su quelli che sono i fattori divisivi, il baratro in cui ci può far sprofondare l'indole egoista degli esseri umani non toccherà mai il fondo.
Sparare ai barconi o affondarli, non risolve il problema. Bisogna decidere quali sono le nostre priorità, perché, se è più importante non vedere ciò che succede oltre i nostri confini, se pensiamo che non farli partire risolva i NOSTRI problemi, se pensiamo che non vedere centinaia di migliaia di persone fuggire sia meglio, allora, chiudiamo completamente il mare, poniamo delle navi da guerra pronte a far fuoco ai confini dei mari costieri; bombardiamo i punti sensibili; spegniamo telecamere e microfoni; chiudiamo gli occhi, turiamoci il naso e tappiamoci le orecchie.
Se pensiamo che non sentire quelle urla strazianti e non vedere tutto quel sangue, renda un problema più semplice da risolvere e che il mondo che non si vede non esiste, prego, possiamo anche farlo. Però ricordiamoci che: questo non ci rende migliore di quei tedeschi, di quegli italiani e di tutte quelle persone che un tempo, durante le più atroci stragi di Stato, fecero finta di non vedere proseguendo la loro normale vita, di colpevole ignavia. Potremo vivere serenamente i momenti di ebete indifferenza, ma ricordiamoci, che saremo tutto ciò che la nostra storia ogni giorno condanna.
Ciò che saremo nella storia lo decidiamo noi. Bisogna solo decidere in che parte della storia vogliamo collocarci.
Sparare ai barconi o affondarli, non risolve il problema. Bisogna decidere quali sono le nostre priorità, perché, se è più importante non vedere ciò che succede oltre i nostri confini, se pensiamo che non farli partire risolva i NOSTRI problemi, se pensiamo che non vedere centinaia di migliaia di persone fuggire sia meglio, allora, chiudiamo completamente il mare, poniamo delle navi da guerra pronte a far fuoco ai confini dei mari costieri; bombardiamo i punti sensibili; spegniamo telecamere e microfoni; chiudiamo gli occhi, turiamoci il naso e tappiamoci le orecchie.
Se pensiamo che non sentire quelle urla strazianti e non vedere tutto quel sangue, renda un problema più semplice da risolvere e che il mondo che non si vede non esiste, prego, possiamo anche farlo. Però ricordiamoci che: questo non ci rende migliore di quei tedeschi, di quegli italiani e di tutte quelle persone che un tempo, durante le più atroci stragi di Stato, fecero finta di non vedere proseguendo la loro normale vita, di colpevole ignavia. Potremo vivere serenamente i momenti di ebete indifferenza, ma ricordiamoci, che saremo tutto ciò che la nostra storia ogni giorno condanna.
Ciò che saremo nella storia lo decidiamo noi. Bisogna solo decidere in che parte della storia vogliamo collocarci.
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