martedì 17 novembre 2015

Difetti di comunicazione - L'arma del terrore a Parigi, a Beirut e in Siria ha tante matrici.

Signori, chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia.
K. Krauss

In questi giorni molto duri mi veniva in mente questa frase di Krauss, riportata in auge da una citazione di Tiziano Terzani in una lettera a Oriana Fallaci, ogni volta che ascoltavo i soliti commenti sui terribili fatti di Parigi. Un salto indietro di 11 mesi, quando a gennaio ci furono gli attacchi a Charlie Hebdo per le vignette su Maometto (qui puoi leggere cosa ho scritto di quel triste gennaio). Siamo in novembre e la situazione è addirittura peggiorata, senza soffermarmi su tutte le strumentalizzazioni, le notizie false diffuse in rete e le prese di posizione vergognose di molti "politici".



In molti a gennaio avevano detto che un po' Charlie Hebdo se l'era cercata, perché la sua satira aveva esagerato e scatenato i terroristi. Oggi si rivaluta la Fallaci in tutto il suo pensiero. Come si può vedere il terrorismo crea un orrore mediatico ancora più grosso di quello materiale.
I simboli da attaccare sia a gennaio che l'altra terribile notte sono i principi cardini della società moderna: la libertà di espressione, la multiculturalità, la culla del pensiero illuminista.
Le immagini e le sensazioni della sera del 13 novembre sono ancora davanti agli occhi, le urla, il sangue e quei giovani morti. Un divertente venerdì sera spezzato dalla violenza. La vita può cambiare in un attimo e finisce per stravolgere qualsiasi certezza che avevi.




Nella tranquilla Europa occidentale post guerra fredda, siamo ormai abituati all'integrazione tra Stati, a una vita pacifica e tutto sommato tranquilla, lontana da quelle tensioni e quelle paure che avevano caratterizzato il passato e che invece caratterizzano altri contesti geografici.
Sono proprio quelle differenze che fanno paura. Ci diciamo assuefatti all'orrore, al sangue e alle tragedie quando le guardiamo sul piccolo schermo, quando cioè le sentiamo distanti e remote.
Appena ci colpiscono più da vicino, mostriamo tutte le insicurezze e le debolezze delle nostre convinzioni.
In pochi attimi vengono messe in dubbio quelle certezze e quei valori su cui, da decenni, basiamo il nostro vivere civile.


Dedica a Valeria Solesin


Poi ci sono le vittime, quelle vere, quelle foto che resteranno immagini per sempre e quei sorrisi che i cari non vedranno più. Un giovane libanese stroncato dall'attentato, vale quanto un giovane italiano che muore. Ci sono poi i volti e le parole, le vittime vicine. Valeria è una di quelle. Quanti in questi giorni non hanno pensato di poter essere al suo posto, in una città, che per tanti ha un significato particolare.

Quel sorriso si è spento per sempre. Non la conoscevo, per questo voglio lasciare il suo ricordo alle parole di chi ha davvero avuto la fortuna di viverci vicino.
Stupenda. Libera. Piena di idee e di forza. La migliore studentessa del mio corso alla Sorbona. Era molto impegnata nel sociale, non solo con Emergency. Avevamo parlato a lungo della questione del terrorismo, soprattutto dopo l’attentato a Charlie Hebdo. Era contraria a qualsiasi guerra, a qualsiasi intervento militare.  Valeria si era conquistata ogni millimetro della sua vita.
Era tosta. Aveva studiato tantissimo. Era ricercatrice all’Ined della Sorbona, la sua era una borsa di studio molto prestigiosa. Studiava le comparazioni fra le famiglie italiane e francesi, cioè lavorava studiando anche un po’ il suo caso.
Abitava a Parigi da quattro anni e stava vivendo il suo sogno. Ma certo, le sarebbe piaciuto molto poter avere la stesse possibilità in Italia.
Diceva che l’unico modo per rispondere alla guerra era la pace. Questa era la sua visione del mondo. Pace, soltanto pace."

Valeria aveva sogni, stava lottando per vivere il proprio, così come i molti che erano in giro quella sera a Parigi. Una sera di svago.
Una sera in cui il terrorismo arriva in maniera subdola e in un lampo distrugge tutto e tutti.




 

Guerra dei curdi, guerra ai curdi













Chi ha combattuto in questi mesi lo Stato Islamico?  La Siria è stato teatro di uno scontro a più fronti. Prima dipinto come una guerra tra Assad, il despota, e il fronte dei ribelli. Questi ultimi sono stati foraggiati dal denaro americano, che ha creato lo scenario dove si è  rafforzato il fronte il fantomatico Is, Isis, Isil, Daesh o come lo si vuole chiamare. Tra più fuochi invece ci sono i curdi, una delle poche forze a combattere realmente il califfato, che da un lato deve difendersi dalla Turchia, dall'altro dai bombardamenti russi che vogliono tutelare Assad oltre che dall'Is.

 

La violenza che fa più rumore

Quando il giorno prima di Parigi, l'IS colpiva il Libano, più precisamente il quartiere sciita di Borj el Barajneh di Beirut, provocando 43 morti e 239 feriti, le emozioni della comunità europea, almeno per quel piccolo pezzetto in cui vivo, sono state diverse da quelle poi suscitate dai fatti di Parigi. Non vuol essere la solita morale sulla differenza di solidarietà quando le vittime sono distanti da quelle europee, però è lampante la differenza di trattamento. Eppure si è trattato dell’attentato più cruento, commesso nella capitale libanese da oltre vent’anni. Il terribile caso ha voluto che quegli attentati venissero oscurati da quelli di Parigi e quindi nessun simbolo illuminato per ricordare le vittime libanesi. Non ci sarebbero comunque stati. Perché è vero che è facile identificarsi con un giovane parigino che assiste a un concerto rock, ma più difficile farlo con gli stessi giovani che abitano i quartieri sciiti di Beirut.
È stato necessario che qualcuno esprimesse commozione perché cominciasse a venire alla luce il legame fra le due capitali in lutto. Ha forse ragione quel commentatore su facebook al post di Internazionale.


Ventiquattr’ore prima di Parigi, il gruppo Stato islamico colpiva Beirut senza provocare altrettanta solidarietà con le vittime. C’è di che interrogarsi sui motivi di questa differenza, scrive Pierre Haski.
Posted by Internazionale on Lunedì 16 novembre 2015

Il commento su facebook di un utente all'articolo di Internazionale

Pensate che alla gente gliene freghi qualcosa delle stragi in medio oriente? Zero. La guerra civile nello Yemen? Meno di zero. La guerra in Afghanistan? "Ah perché la fanno ancora?" Sì, siamo andati ai supplementari. L'importante è che accadano lontano dal proprio giardino, tutto il resto è ininfluente. Prendi un po' di occidentali a campione, presenta loro una mappa e chiedi di indicare il Libano e la Siria. Poi vediamo i risultati. Nella migliore delle ipotesi ti dicono che Beirut è in Egitto, nella peggiore raccogli commenti stile "finché si ammazzano fra di loro va bene". Non potete aspettarvi solidarietà, questo è l'occidente, di tutto ciò che accade al di fuori fotte un cazzo. Fino a che i casini non vengono anche qui, allora ci si ricorda che oltre il proprio giardino c'è un mondo intero



Ci si chiede allora perché questa differenza di trattamento. In realtà non ci si chiede proprio nulla, il tutto finisce sempre in un dibattito tra "buonisti e guerrafondai". Vale il principio d'identificazione sociale che funziona negli incidenti ferroviari. Dimenticandoci che le responsabilità occidentali sono tante, con le diverse avventure militari, come quella in Afghanistan, che ha trasformato sedicenti "liberatori” in “occupanti”, quella del 2003 in Iraq e del 2011 in Libia, che invece hanno provocato la dissoluzione di stati, lasciandoli in preda al caos e a una guerra civile sanguinosa.
È come se si vivesse lontano la tragedia di contesti ormai abituati alla guerra e all'orrore. Le vittime diventano semplici numeri, delle immagini visualizzate e filtrate dallo schermo.
Viviamo come in un cinema e siamo abituati a guardare da lontano tutte le storture del mondo.
Ora quello schermo è diventato realtà. Le vittime sono anche nostri vicini, siamo anche noi.

Punti di vista


La strategia mediatica degli interventisti è chiara, ci dicono che siamo sull'orlo di una guerra di civiltà. Lo stesso fa l'Isis, che oltre agli attacchi mira a creare terrore mediatico e ad affermare l'imminente guerra di civiltà e di religione. Si vuole vendetta, si cerca la guerra, come se le bombe lanciate in precedenza avessero risolto qualcosa. L'Iraq e l'Afghanistan sono lì a ricordarcelo: gli estremismi spopolano laddove gli Stati nazionali sono indeboliti o frantumati. Si bombarderà l'Isis e magari lo si sconfiggerà, ma senza una strategia reale che possa coinvolgere anche quei Paesi e quelle popolazioni, che risolva una volta per tutte il paradosso palestinese, e che non cali dall'alto su decisione Usa-Russia, non si risolveranno mai i problemi atavici che minacciano la stabilità della zona. Solo propaganda mediatica volta a esasperare gli animi e a cercare una reazione forte da parte dell'Occidente, è quello che cerca chi con la guerra ci guadagna,  chi vuole conquistare un territorio che frutta tanti guadagni, con oppio, traffico d'armi e petrolio.
Ora ci sono i bombardamenti francesi in aggiunta a quelli russi. Decisioni unilaterali sulla scia degli americani con l'Afghanistan, mentre l'Onu dimostra ancora di più la propria inutilità e l'Europa come al solito vacilla, perché da sempre senza unione e leadership.

Da un lato e dall'altro è sempre una questione di business: Occidente, Illuminismo, Allah e Maometto sono solo pretesti per far giocare gli altri alla guerra di civiltà.

Il nemico è alle porte. Come a Kobane. Come a Yarmouk.

Ma è davvero così?

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